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Termini Imerese: Ecco come si “Cunzava u Mortu” – di Nando Cimino

Il verbo “cunzari” veniva utilizzato quando, in presenza di un morto, e prima di celebrarne il funerale, c'era da sistemare il corpo del defunto nel letto di casa

Nella foto un monumento funerario nel Cimitero di Giancaniglia

Oltre che con il significato classico di condire, il verbo siciliano “cunzari” lo si usa anche per far riferimento a tutto ciò che viene riparato, come “cunzari i scarpi”, oppure preparato; e cioè approntato. Infatti si può anche dire “cunzari a tavula”, nel senso di apparecchiare, o ancora “cunzari u lettu”; e cioè rifare (sistemare) il letto.

E, proprio nel nostro caso, il verbo “cunzari” veniva utilizzato quando, in presenza di un morto, e prima di celebrarne il funerale, c’era da sistemare il corpo del defunto nel letto di casa, in attesa delle visite di amici e parenti. La cosa potrebbe sembrare di per se semplice; ma nei fatti non era così. Il trapassato infatti, non veniva lasciato nel suo letto di morte, ammesso che fosse deceduto in casa; anzi, nel caso fosse l’unico disponibile, quel letto veniva smontato e ricomposto al centro di una stanza dove, a tale scopo, si sistemavano trispita, tavole, materasso, lenzuola e cuscino; e, tutto intorno, le sedie per coloro che sarebbero venuti a porgere le condoglianze.

“Ogni mortu sconza a casa” si diceva; e questo valeva non solo per il fatto che la mancanza di un familiare avrebbe creato uno sconvolgimento nella vita e negli affetti; ma anche perché, per far fronte a quella indesiderata situazione, bisognava metter sottosopra l’abitazione.

Era poi convinzione che, almeno fin a quando il morto si trovava in casa, anche la sua anima, in qualche maniera, rimaneva ancora presente sul posto. E perciò, per evitare di arrecarle danno, si coprivano gli specchi per far si che essa non vi si riflettesse, rimanendo ‘ncantata; e quindi non potesse volare libera verso il cielo. A tale scopo, dal corpo del defunto, venivano pure tolti eventuali oggetti metallici; stessa cosa facevano anche tutti coloro che in quel frangente erano presenti nella casa, liberandosi repentinamente di bracciali, orologi, collane.

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Nel momento in cui il moribondo spirava, si doveva poi prestare grande attenzione a non dimenticare di aprire immediatamente una finestra; e pure questo allo scopo di permettere all’anima di trovare subito l’uscita e imboccare senza ostacoli la via del paradiso.

Taluni che abitavano a Termini, ma che magari provenivano da altre zone della Sicilia, usavano addirittura lasciare aperta quella finestra per tre giorni, mettendo sul davanzale un lumino acceso (a stiarina). E questo per consentire al morto, o meglio alla sua anima, di ritrovare la strada di casa qualora gli fosse venuta voglia di tornare per dare un ultimo “saluto” o un altro fugace sguardo. In tal senso si diceva: “L’arma a Diu e lu corpu a la terra”; al che c’era sempre qualcuno che aggiungeva: “…e a robba a cu tocca”!

Anticamente si riteneva pure che l’anima dei peccatori di sesso maschile, vagasse per la terra addirittura sette anni e “senza risettu”. Mentre per quella delle peccatrici femmine, si credeva che rimanesse incatenata nel corpo delle rane (i giurani) o dei rospi (i buffi). Quando infatti capitava che nelle campagne qualcuno inavvertitamente calpestasse un rospo uccidendolo, subito proferiva questa frase: “Si eri buffa t’ammazzaiu, si eri fimmina ti libbiraiu” ovvero: “Se eri rospo ti ho ucciso, se invece eri una donna ti ho liberato”. E appendevano l’animale morto ad un ramo legato per la zampa, oppure infilzato ad una canna.

E che dire poi di quelli che pensavano che attraverso l’anima del “mortu friscu”, si potesse comunicare anche con altri parenti defunti? E infatti, ecco che c’era sempre qualcuno pronto a mettere “’ntò tabbutu”, pure bigliettini con messaggi scritti, o anche piccoli oggetti, come fossero regali. Oggi più nulla di tutto questo; e ogni cosa viene demandata alle agenzie funebri che poco si curano di anime e bigliettini.

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