Termini Imerese: Stanno arrivando “I scarpi di pilu” – di Nando Cimino
Erano poveri lavoratori della terra provenienti in gran parte da Tortorici, piccolo centro montano in provincia di Messina e che, per guadagnarsi da vivere, arrivavano annualmente a Termini in occasione della raccolta delle olive
Li chiamavano “scarpi di pilu” perché invece delle normali calzature erano soliti portare delle scarpe realizzate artigianalmente con pelli di capra allacciate alla caviglia. Erano poveri lavoratori della terra provenienti in gran parte da Tortorici, piccolo centro montano in provincia di Messina e che, per guadagnarsi da vivere, arrivavano annualmente a Termini in occasione della raccolta delle olive.
Giungevano in tanti, uomini e donne verso la fine di Ottobre e trovavano subito occupazione rimanendo in città per diverse settimane. Era un lavoro duro e faticoso che vedeva impegnate anche le donne che passavano l’intera giornata chine od inginocchiate per raccogliere le olive che gli uomini, battendo allora manualmente con delle assi di legno (i viricanti), facevano cadere dai rami. Alloggiavano in stalle od in angusti bassi, dormendo su improvvisati giacigli fatti per lo più di paglia. Un anziano, che ancora in quella zona abita, ricorda perfettamente di un numeroso gruppo di almeno venti persone tra uomini e donne, che fin negli anni cinquanta occuparono annualmente un fatiscente basso di via Fossola fuori Porta Palermo. Erano in gran parte impiegati a giornata; e di buon mattino si riunivano in cerca di ingaggio nei pressi di Sant’Antonio poco oltre Porta Girgenti oppure nei pressi di Porta Baddoma.
Qui spesso stazionavano davanti o Zu Giuvanni u cartiddaru, che teneva esposti di fronte al suo negozio e sotto gli alberi ancora esistenti, le scale di legno, i virganti, i panara e i carteddi. Tanti proprietari terrieri e tanti viddani si fermavano proprio ntò Zu Giuvanni e sceglievano i turturiciani che poi portavano nelle loro campagne a bordo dei carretti ma pure a piedi se non era troppo distante, od anche con il mulo. I turturiciani indossavano spesso un ampio mantello per potersi riparare dal freddo e quando pioveva, per potersi meglio muovere quando la terra era bagnata e non avendo la possibilità di comprare i “scarpi chi tacci” che allora venivano usati da tanti contadini, calzavano i cosiddetti “zampitti”. Erano queste delle particolari scarpe, ma è improprio definirle tali, che loro stessi realizzavano utilizzando pezzi di copertoni di automobili opportunamente tagliati a misura e legati alle caviglie con dei lacci.
Vi lascio immaginare in quali condizioni dovessero essere i piedi di questi poveracci dopo dieci ore e più di faticoso lavoro. Poi una volta la settimana, di solito la Domenica mattina, si riunivano insieme per andare dal barbiere dove, prima di sedersi chiedevano sempre il prezzo; ed i tanti barbieri, ben a conoscenza delle condizioni di quella povera gente, non si lasciavano certo pregare per fare loro lo sconto. Anche la manodopera femminile aveva un ruolo fondamentale nella raccolta delle olive; donne che iniziavano la loro dura giornata con una invocazione che dalle nostre parti, così come mi narrò una volta un anziano contadino, faceva pressappoco così: “ Priamu a Tia Signuri di matina, p’aviri forza finu a siritina, di cogghiri st’alivi a ginucchiuni, e lassari cuntentu lu patruni !”.
Termini Imerese era, ed in parte lo è ancora oggi, molto ricca di uliveti; alberi antichissimi e spesso ultracentenari che tutti chiamavano “saracini” e che producevano olive di ottima qualità dal quale si ricavava un olio buonissimo e dal sapore intenso. Fondamentale durante il periodo della raccolta era proprio il lavoro delle donne che chine od inginocchiate prendevano cocciu pi cocciu il frutto, dividendolo dalle foglie e mettendolo prima nei panieri e poi nei sacchi di juta, che sarebbero stati portati alla macina. Erano perlopiù giovani ragazze che guidate dall’occhio e dai consigli di un contadino particolarmente esperto, ma spesso anche da una qualche loro compagna più anziana “a capa”, trascorrevano nei campi l’intera giornata lavorando alacremente.
La pausa di mezzogiorno durava il tempo necessario per un misero pranzo a base di pani e cipudda, passuluna e qualche sarda salata; il tutto accompagnato da buon vino e da qualche allegra battuta o canzone giusto per ritemprare anche lo spirito. Spesso si trattava di canti d’amore o di dispetto con i quali si stuzzicava qualche componente del gruppo; fin quando il padrone faceva sentire la sua voce dicendo a tutti: “Picciotti turnamu a travagghiari se no stasira nenti dinari”. Quasi tutti erano infatti iurnateri e per loro il pagamento avveniva proprio a fine della giornata lavorativa. quando, soprattutto le povere donne, tornando a casa chi cianchi rutti e spesso senza nemmeno mangiare, vinte dalla fatica e dal sonno si lasciavano cadere in un povero giaciglio di paglia.